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LE GRANDI STORIE DEL MEDAGLIERE

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UN OGGETTO TESTIMONE DEL “TERRORE”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Negli ultimi tempi al Medagliere stanno arrivando oggetti molto particolari e dalla grandissima carica evocativa.

Qualche numismatico purista potrà contestare che non si sia di fronte a vere e proprie medaglie, ma come non restare colpiti ed incuriositi da un oggetto come quello che presentiamo in questo numero?

Si tratta di una medaglietta, della larghezza di circa 25mm x 35mm di altezza, ricavata in modo artigianale da un pezzo di metallo, (rame?) e modellata a forma di cuore.

Su di un lato è raffigurata la lama della ghigliottina e sull’altro la data “1794”. Tanto la figura che la data sono incise a mano senza alcuna pretesa di artisticità o velleità estetiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

La presenza di un appiccagnolo altrettanto artigianale, mostra come questo oggetto, una sorta di ciondolo quindi, fosse stato pensato per essere indossato.

Le sue attuali condizioni ne confermano un lungo uso.

Come si dice in gergo numismatico, la medaglietta è molto “lanata”, ovvero consumata per il continuo e prolungato strofinamento delle sue superfici con la pelle e gli abiti di chi l’ha portata, presumibilmente, al collo a lungo tempo.

Chi e perché ha voluto indossarla così a lungo da “lanarla” a quel modo?

Ovviamente non possiamo avere risposte ufficiali a domande del genere; possiamo però provare a contestualizzare l’oggetto così da fornire risposte quantomeno plausibili.

Se a prima vista, ciò che può colpire è l’immagine della lama della ghigliottina, inconfondibile nella sua forma (voluta per ironia della sorte proprio dalla sua vittima più illustre: Re Luigi XVI) per chi per lungo tempo si è interessato di quegli anni travagliati, quello che invece risalta agli occhi è la data. Il 1794 infatti è l’anno del terrore, ovvero il periodo in cui la Rivoluzione minacciata tanto da nemici interni che dalle forze delle altre monarchie europee coalizzate per vendicare l’esecuzione dei monarchi francesi, raggiunse livelli di violenza cieca e spietata, difficili anche solo da immaginare.

A capo di questa macchina infernale, finalizzata all’eliminazione di chiunque apparisse, anche senza uno straccio di prove a conferma, nemico della patria, vi era Maximilien Robespierre l’Incorruttibile come veniva chiamato all’epoca.

 

 

 

 

Come spesso accade a coloro che poggiano il loro potere su un uso scriteriato della violenza, anche lo stesso Robespierre ne fu vittima diventando anzi insieme a Luigi XVI, Maria Antonietta ed a Danton, uno dei più famosi “ospiti” del “rasoio nazionale”.

 

 

La sua testa cadde il 10 termidoro del 1794, all’indomani del colpo di stato ordito contro di lui ed il suo comitato di sicurezza generale, dagli esponenti delle altre fazioni politiche ormai terrorizzate per le continue epurazioni che avevano colpito, negli ultimi mesi, tutti coloro si fossero opposti, anche solo a parole ed in modo velato, al loro modus operandi.

Subito dopo la sua esecuzione, le porte delle carceri di tutta Parigi, fino ad allora straboccanti di prigionieri più o meno illustri e fino ad allora periodicamente svuotate solo per mezzo delle cd. Infornate di condannati alla ghigliottina, si aprirono immediatamente riportando alla libertà migliaia di persone incredule per non essere state vittime di un destino ormai certo. Fra di loro forse la più celebre fu Josephine Beauharnais, la futura prima imperatrice di Francia a fianco di Napoleone Bonaparte.

Non appena liberate, fra le reduci delle terribili prigioni parigine, si diffuse una moda che forse ci può apparire macabra ma che è pienamente comprensibile di fronte al trauma ed ai drammi vissuti da costoro, ovvero quella di indossare un nastro rosso intorno al collo per simulare o forse esorcizzare il taglio sanguinante provocato dalla lama della ghigliottina.

Nello stesso modo è possibile che altri abbiano cercato di fare altrettanto attraverso oggetti diversi ma sempre aventi la stessa funzione di ricordare e celebrare sia il loro sfuggire ad una morte data per certa, che la fine per mezzo dello stesso strumento infernale, del loro implacabile carnefice.

Potremmo cioè immaginare che questo oggetto così rustico ed artigianale sia stato inteso da colui che l’ha indossato per anni, come una sorta di medaglietta devozionale non religiosa a cui è rimasto legato come una sorta di talismano irrinunciabile.

In quegli anni al servizio della ghigliottina si trovò sempre una stessa persona: Henri-Clément Sanson, il boia della rivoluzione che dovette sostenere per ben quattro anni, il peso di togliere la vita, nel nome del popolo sovrano di Francia, a migliaia di persone.

Nel corso della sua attività, tenne un diario in cui registrò con precisione maniacale il nome di tutte le proprie vittime, narrando, in alcuni casi anche aneddoti relativi alla loro condotta di fronte alla morte.

Il diario si interrompe improvvisamente il 12 termidoro ovvero due giorni dopo l’esecuzione di Robespierre come se la folla dei nomi dei condannati a morte lo avesse sopraffatto. Tra l’altro negli ultimi giorni, come se non fosse più in grado di sostenere il peso del suo lavoro, Sanson si limitò a registrare solo i nomi dei condannati senza più aggiungere nulla.

Anche della esecuzione di Robespierre e di tutti i membri del comitato di sicurezza generale, Sanson si limita a registrare solo i loro nomi senza fare alcun commento sul loro destino né riservando loro un’attenzione maggiore di quella dedicata alle migliaia di altri privati cittadini passati dalle sue mani.

Di questo diario abbiamo notizia grazie alla sua pubblicazione, avvenuta a metà ottocento, a cura del nipote di Sanson che, ultimo di una lunga dinastia di boia, decise di raccontare le vite dei suoi predecessori in quel ruolo così crudele e delicato [1].

A proposito dell’esecuzione di Robespierre, in mancanza del racconto in presa diretta di Sanson, il nipote ci offre una descrizione tanto precisa quanto vivida, frutto dei racconti orali di suo nonno e suo padre, di cui è interessante riportare alcuni stralci a seguire:

“Alle quattro e mezzo le carrette arrivarono. Tutta Parigi era là ad attendere, non più curiosa, ma avida: il cuore gonfio di lutti inconfessati, di lacrime divorate in silenzio; palpitante di collera, di odio, di vendetta, di rimorso, dei mille sentimenti per tanto tempo spietatamente trattenuti, che rigurgitavano tutt’a un tratto come un fiume dagli argini rotti dalla tempesta…

Maximilien Robespierre, seduto nel fondo della vettura sopra un po' di paglia che uno degli aiutanti gli aveva accomodato, aveva il viso più tumefatto del mattino, addirittura più livido. Le grida, le ingiurie più veementi lo lasciavano insensibile; egli tenne quasi costantemente gli occhi chiusi. Suo fratello era quasi privo di sensi….

Quando si giunse alla casa della famiglia Duplay, di cui Robespierre era stato l’ospite e l’amico, i veicoli furono fermati; furono improvvisati dei balli intorno alle carrette; un ragazzo portò un secchio di sangue da una macelleria del vicinato, e con una scopa ne fu imbrattata tutta la fronte della casa.

Invano Charles-Henri Sanson ordinava ai gendarmi di aprirgli un passaggio; invano egli invocava il dovere e il rispetto della sventura; i gendarmi voltavano i loro cavalli, si confondevano nelle urla delle erinni e le eccitavano. Fu certo un deplorevole spettacolo, di cui si indigna ogni cuore onesto, a qualunque opinione appartenga…

La tremenda sosta non durò più di cinque minuti. Nel momento che le carrette si rimettevano in moto, una donna, che dal vestito pareva appartenere alla borghesia, si attaccò alla vettura, rischiando di farsi schiacciare; gridò: “Va’ all’inferno, disgraziato! Tutte le spose e tutte le madri ti maledicono!” Robespierre parve non sentirla. La si distaccò a viva forza, poiché ella non voleva togliersi di là, e il convoglio si mosse.

Erano le sei e un quarto quando giunsero in place de la Révolution.

I condannati furono fatti scendere. Gobeau, ex sostituto dell’accusatore pubblico al Tribunale criminale, fu decapitato per primo, Maximilien Robespierre era rimasto in piedi, appoggiato sulla carretta, volgendo le spalle al patibolo. Suo fratello era sostenuto dai gendarmi: le ferite non gli consentivano di reggersi in piedi…

Quando toccò salire a Saint-Just, passando davanti a Robespierre gli disse null’altro che “Addio”. Nessuna commozione nella sua voce. Robespierre gli rispose con un cenno del capo, si voltò e lo seguì con gli occhi fissi a quando non fu collocato sull’asse mobile.

Venne poi la sua volta di salire; era il decimo. Andò solo e senza aiuto. Nel suo passo non c’era iattanza né pusillanimità; il suo sguardo, la sola parte della faccia che avesse vita, era freddo ma calmo.

Charles-Henri aveva avvertito uno degli aiutanti che si dovevano levare le bende che avvolgevano la testa: l’uomo fece ciò gli era ordinato e liberò la ferita dalla sua fasciatura. Il dolore fu orribile; Robespierre cacciò un grido. La mascella disarticolata pendeva, la bocca era spaventosamente spalancata e ne colava sangue. Si fu solleciti a spingerlo sull’asse mobile, e in meno di un minuto il coltello cadde. La testa di Robespierre fu mostrata al popolo come si era fatto con quella del re e di Danton: la folla la salutò con ripetuti applausi….”

 

 

Alain Borghini

 

NOTE:

 

[1] Henri-Clément Sanson, “Giù la Testa, memorie del boia della rivoluzione” a cura di Matteo Noja.

 

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